23.9.09

Il teatro politico scende dalla cattedra


Cosa rimane oggi della sinistra? I drappi rossi e la falce e martello riescono ad evocare solo un passato dai contorni sbiaditi e dal sapore quasi mitologico? È questo il dubbio amletico che anima lo spettacolo di Fabio M. Franceschelli “Appunti per un teatro politico” che, lungi dall’offrire banali formule risolutive o dall’indicare una netta via da seguire, tratteggia con dolorosa ironia l’annebbiamento di una sinistra da tempo impaludata.
Affiancati da due tende rosse, sovrastati da un triangolo dorato tra il massonico e il regale, il monarca capitalista Sir Jacksonn e il suo fido primo ministro Sir Jackson (le “n” alla fine dei cognomi sono cruciali) danno vita a un dialogo sboccato, in cui il turpiloquio e gli espliciti riferimenti alla sfera sessuale stridono grottescamente con una recitazione piatta, degna di una annunciatrice televisiva. I luoghi comuni della società consumistica vengono dilatati, il giallo e il rosso della scena sono aggressivi come i lustrini e gli addobbi pseudo-natalizi che agghindano i costumi dei personaggi. Nonostante il suo potere, la smodata bramosia di “culi” di Sir Jacksonn non può essere soddisfatta: la liturgia di palazzo e il protocollo impongono inconsistenti incontri istituzionali in cui la stretta di mano cordiale e il sorriso per la stampa sembrano prodotti da un automatismo irresistibile. Tra ingiuriosi appelli all’autore del testo e ossessive ripetizioni di alcune battute che rimandano al teatro dell’assurdo, si arriva alla rappresentazione di un regime comunista in cui l’unica “rivoluzione” è rappresentata da un cappello con la falce e martello e dalla scomparsa da tutti i cognomi delle “n” finali, cosicché tutti i personaggi si chiamano “compagno Jackso”, e se prima l’oggetto del desiderio erano i culi, ora il primo dirigente del partito non pensa ad altro che alle tette. Come soluzione di continuità in questo ribaltamento gattopardesco, si inserisce un monologo politico in cui i proclami e le dichiarazioni di intenti oscillano tra un idealismo socialista impolverato e un impenitente populismo che solletica il ventre dell’elettorato. Citando Brecht e Pasolini, il personaggio mostra orgoglioso la sua busta paga da 1.450 euro, ma poco alla volta scopre che la vita gli si pone davanti: il matrimonio, i figli da mantenere, il lavoro da riconquistare ogni mattina e quei 1.450 euro al mese diventano una decina di euro al giorno. In un crescendo di tensione l’attore si ritrova nudo sul palco, spogliato di tutte le sovrastrutture imposte da una società che misura tutto con il tintinnio delle monete, a urlare la sua rabbia alla disperata ricerca di una chiave di volta.

Matteo Marcozzi
 
OlivieriRavelli_TEATRO
Appunti per un teatro politico
drammaturgia e regia di Fabio M. Franceschelli
con Claudio Di Loreto, Silvio Ambrogioni, Gabriele Linari, Domenico Smerilli
ideazione scene e costumi Fabio Franceschelli, Claudio di Loreto

20.9.09

Deserto Libico


Dagmawi Yimer, etiope, coautore del documentario “Come un uomo sulla terra” assieme ad Andrea Segre e Riccardo Biadene, studiava giurisprudenza ad Addis Abeba, ma ha abbandonato gli studi fuggendo dal suo paese per “motivi politici”. Dalle sue parole emerge che sotto questa formula dal sapore quasi burocratico si cela davvero l’impossibilità di realizzarsi, o più semplicemente di continuare a vivere nel proprio paese: “Ad Addis Abeba studiavo Giurisprudenza, ma vedendo che i giudici vengono arrestati dal governo o diventano strumento del potere, mi sono chiesto: che ci faccio in questo paese?” – dice Dag, aprendo il documentario. Attraversato il deserto tra Sudan e Libia, diventò merce di scambio dei contrabbandieri che gestiscono gli esodi di migranti nel mediterraneo e oggetto di soprusi da parte delle forze dell’ordine libiche, ma riuscì comunque a raggiungere l’Italia per mare. La sua storia ci porta infine a Roma, nella scuola di italiano “Onlus Asinitas”, dove Dag ha potuto prendere familiarità con la nostra lingua, ma anche con gli strumenti espressivi del film documentario. Dalla congerie di stimoli e di esperienze accumulate nella propria odissea, Dag ha cercato di dare voce a coloro che hanno condiviso con lui le medesime vicissitudini e di dare un contributo autentico al dibattito politico sull’immigrazione, spesso incentrato su formule stereotipate e indifferenti alla complessità del problema. Dag entra subito con la telecamera nella scuola di italiano “Asinitas”, a Roma, sulla via Ostiense, nei primi piani cattura i volti di ragazzi dagli occhi profondi, la cui voce è venata dalla rabbia per le ingiustizie subite e solo a tratti si rompe in conati di pianto discreti e subito repressi. Le loro storie sono terribilmente simili: partono dall’Etiopia, dal Sudan o dagli altri paesi della fascia sub sahariana, attraversano il deserto sui dei fuoristrada in cui sono ammassati come sacchi di frumento, senza acqua né cibo. Arrivati in Libia, diventano preda dei trafficanti e della polizia passando dagli uni agli altri. I racconti, le braccia tumefatte di una ragazza legata con una corda per nove giorni e il ricordo dello stupro subito da parte di alcuni poliziotti, si alternano alle immagini tronfie degli accordi bilaterali tra Italia e Libia contro l’immigrazione. Dal 2003 infatti l’Italia, passando per i governi Berlusconi, Prodi fino ai giorni nostri, ha iniziato a tessere degli accordi con il colonnello Gheddafi al motto di “più petrolio, meno immigrati”, senza preoccuparsi di come i fondi e i mezzi italiani siano impiegati. I containers che i libici utilizzano per trasferire i migranti ad Al Kufrah sono stati donati dall’Italia: basta entrare in una di queste scatole di lamiere, immaginarvi dentro accovacciate più di cento persone, farsi imperlare la fronte di sudore dopo pochi minuti per il caldo asfittico per capire che quei famosi treni di sessanta anni fa non appartengono definitivamente alla storia. Dice Dag con amara ironia: “Io quando ero bambino ho visto il nostro gatto che mangiava uno dei suoi cuccioli perché era debole. […] E’ così che sta facendo l’Italia: quello che riesce a passare il mare, lo tiene, lo riconosce, ma quello che non ci riesce, lo fa mangiare da un libico”. Davanti alle flebili reazioni degli organismi internazionali che non riescono ad avere un ruolo decisivo e concreto, davanti alla nuova politica dei respingimenti inaugurata dal governo Berlusconi e alle voci dei migranti raccolte rimane tragicamente sospesa la domanda di una ragazza: “Come puoi stare zitto quando qualcuno viene frustato?”


Matteo Marcozzi

Come un uomo sulla terra
di Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene
 con Fikirte Inghida, Dawit Seyum, Senait Tesfaye, Tighist Wolde, Tsegaye Nedda, Damallash Amtataw, Johannes Eyob, Tsegaye Tadesse, Negga Demitse
soggetto e fotografia Andrea Segre
montaggio Luca Manes con la collaborazione di Sara Zavarsie
consulenza giornalistica Stefano Liberti, Gabriele Del Grande
consulenza storica Alessandro Triulzi

Diario di un rondista



5:38 P.M., via dell’olmo: Radunati, ormai una trentina, uomini e donne, forse di più, maggiorenni, adulti o anziani non fa differenza. Identificati dalla maglia, dalla scritta bianca che ci definisce, poi, secondo disponibilità: occhiali scuri, impenetrabile a specchio, stoffe di neri dai piedi in su; senza esagerare. Di vestiario sobrio, battezzati dal ministero, sacerdoti della sicurezza. Senza esagerare, ordinati ordinanti, osservatori volontari: non siamo mica fascisti, noi.
6:00 P.M., via XX Settembre: Partiti: a manipoli sparsi; è la legge che ci impone divisione, e non possiamo essere più di tre durante la ricognizione, e non possiamo essere iscritti a movimenti, o associazioni, o gruppi, e non possiamo intervenire direttamente. Limitati, così indeboliti, almeno nella forma. Tre, sei, nove; passo dal ritmo lento, serioso silenzio, ma gli occhi irrequieti corrono, dietro le lenti scure, gesti strozzati mettono i muscoli in tensione. Partiti.
6:13 P.M., piazza Giacomo Matteotti: Osservatori osservati, la gente butta l’occhio, senza incrociare lo sguardo, ferma la vista, la ritrae: penso alla paura forse, al timore generato dall’autorità. Vecchi a passeggio, per la messa pomeridiana, e il solito grassone sporco a richiedere pietà monetaria. “Scusate -la signora anziana si trascina dietro il marito- salve ragazzi, scusate, che vuol dire quello che avete scritto lì?” “La posso riprendere?” “Che fate una pubblicità?” “Siamo osservatori volontari, signora -la possiamo riprendere?- seguiamo il Decreto del Ministero degli Interni sulla sicurezza, osserviamo che… -posso riprenderla?- Signora non si sistemi, si faccia riprendere dal collega: se non ha niente da nascondere non ha ragione di preoccuparsi della telecamera” “Si, si! No, no! Faccia, faccia. Ho capito! Si, si, lo dicevano pure alla televisione. Ma son proprio contenta che finalmente qualcuno abbia pensato di fare questa bella cosa anche qui da noi: cioè una volta si usciva si stava meglio, si sapeva chi eravamo, eravamo noi; invece adesso co’ tutta sta gente nuova… capito no?! -e lui sorridente annuiva- Visto che bravi ragazzi. Bravi. Grazie. E buon lavoro”.
6:20 P.M., viale Secondo Moretti: Camminiamo tra la gente, nella distensione cronica di un sabato qualunque, rompiamo il gregge, lo controlliamo, squadriamo. Siamo solo nuclei di tre -e non più di tre- persone, tanti nuclei, una massa, una folla di nuclei. “È un film? – Sono impazziti! – Hai visto, la ronda? Finalmente – Ma voi dove vi incontrate? Cioè, vorrei partecipare, è una bella cosa – Ma siamo matti?! – Ai tempi miei ci stavano questi che giravano, e mica c’era tutta sta gente così… c’era più rispetto – È uno scherzo -  Ce l’avete un recapito? Quante volte alla settimana vi incontrate? – Mo che vogliono questi? – ci voleva qualcuno che facesse capire che non possono fare quello che gli pare – Ora non si scherza più”.
6:38 P.M., via Calatafimi: Un gruppo di teste rasate, ci sprona, ha apparecchiato un tavolo di volantini, ornato gli angoli di bandiere con la croce cerchiata, celtica di origine; animalisti poco più il là ci danno dei “fascisti”, vogliono allertare le persone con le grida metalliche del loro altoparlante. Ci colorano di politica, ci affidano una bandiera, ma il nostro non è un servizio politico: segnaliamo “eventi che possano arrecar danno alla sicurezza urbana, ovvero situazioni di disagio sociale”. Quegli sbandieratori, non lo sanno, sarebbero i primi a dover essere segnalati, ché lo gridano il loro disagio, ovvero urlano l’incomodo per i bisogni che considerano necessari, socialmente parlando. Il nostro è il servizio sociale che più si allontana dal politico.
6:45 P.M., via Montebello: La formula legale aumenta esponenzialmente la nostra possibilità di segnalazione, in sostanza il nostro sguardo è vero giudice di ciò che deve e non deve accadere. Sgombrare la strada dal disagio è, quindi, sgombrarla dal pericolo: possiamo/dobbiamo allontanare chi mostra di non essere agiato, non essere a proprio agio nella situazione in cui è inserito, ché in esso si mostrerà in maggior misura la possibilità di pericolo. A dimostrarcelo due ragazze dai capelli troppo corti, dagli abiti troppo larghi, fatti di pezza che, col loro giocherellare di birilli, attorniate da bambini, non sembrano preoccuparsi della incolumità che mettono in pericolo. Devono essere allontanate. I birilli volano, vengono fatti rimbalzare sopra le teste pronte ad essere colpite al primo fallo. Ci avviciniamo, pacati, le invitiamo a smettere. Ne nasce una discussione: le ragazze, dicono, non facevano niente di male, erano lì e facevano divertire i bambini; rifiutano il nostro aiuto, vogliono un referente con cui lamentarsi, ma il pericolo è innegabile. Cercano di trattenerle. Agiscono come incoscienti, non sanno, non capiscono, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a difendere la loro vita, di qualcuno che abbia come obiettivo la loro sicurezza: il nostro è alto altruismo. Un signore con le stampelle (quale altro chiaro segno che non sa badarsi da solo, disagiato) vuole a tutti costi mandarci via, far restare quelle due clown. Sopravvengono le forze dell’ordine, immobili, fino a quel momento, appoggiate al cruscotto della pattuglia parcheggiata. I vigili sanno chi siamo. Le ragazze vanno via, con la loro valigia di armi improprie.
7:00, via XX Settembre: Al ritorno le strade son più sgombre, a parte qualche grassa nostalgica comunista che ci sbraita dietro. Marciamo verso il crepuscolo occidentale, sotto un vecchio sole che sta per sparire, la tranquilla solitudine delle vie rimbomba del battito dei passi che regolarizza il respiro, ma il silenzio prevale, suggello del nostro operato. Non penso.





* * *

Nel momento in cui un’azione è posta alla provocazione, chi agisce è pronto a non avere aspettative, sa che le reazioni possono essere delle più disparate, non se ne preoccupa, ché la sua posizione gli permette tutto: lui può andare oltre, superare le righe, pungolare all’estremo. Ma l’indignazione del pubblico è essenziale: ad ogni provocazione dovrebbe corrispondere una reazione, qualunque essa sia. Il problema nasce quando un atto critico, così impostato, viene accolto positivamente, e l’esasperazione delle assurdità viene accettata come realtà ammissibile. Il risultato è una condanna al silenzio, tutto resta lineare; tale paludosa chiusura allo scambio smentisce le visioni ottimistiche (fiduciose o prudenti) di chi preferisce, avrebbe preferito, passare sotto silenzio l’argomento “ronde”, per non “aizzare il can che dorme”, nell’attesa di una digestione sociale automatica, fino all’espulsione. Al contrario, molte delle reazioni che abbiamo raccolto non facevano che accusare un ritardo: dove siamo stati accolti come rondisti-salvatori, ciò contro cui ci stavamo scagliando, era già stato assorbito e trattenuto. L’assegnazione di un colore politico all’istituzione legale delle “associazioni di osservatori volontari” è servita solo a sviare l’attenzione, a deviare facilmente l’argomento: ciò che viene pubblicizzato come manovra per rasserenare quella più o meno naturale (ma comunque zotica) diffidenza verso l’estraneo, implica, se non proprio un’istituzionalizzazione di un discredito verso il governo (democratico o no), almeno l’ammissione di un’insufficienza sociale dello stato. La formula della “segnalazione del disagio sociale”, ironicamente ribaltata dal rondista di cui sopra in una denuncia nei confronti di chi manifesta il suo malcontento, porta ugualmente ad un allontanamento dalla polis, a favore di un’amministrazione più arbitrariamente elitaria. È questa gestione dello spazio pubblico, della società, basata sulla rudimentale (e un po’ mafiosa) concezione del “ci pensiamo noi”, a negare, poi, una qualsiasi convivenza, tanto con l’alieno quanto col dissidente. Il conforme troneggia, e i nostri non possono essere protetti da chi è lontano e tende (dovrebbe) a tutelare tutti, ci riguardiamo noi (dove questo pronome sta sempre ad indicare un gruppo oligarchicamente scelto): “una volta si sapeva chi eravamo, eravamo noi”, gerontocraticamente scelto. Ad intaccare tale levigato indiscriminato, è stato scagliato lo scalpello della nostra provocazione, ma, da rondista, me lo son sentito rimbalzare addosso; o forse no: le voci raccolte da chi ci girava intorno facendo volantinaggio, le telefonate ininterrotte ai vigili, alla polizia in ricerca di una qualche spiegazione, ci confidano che una crepa c’è stata, che lo sdegno è salito. Ma il sostegno più grande è venuto, ignaro, da un carabiniere che, irritato, ci ha salutati accusando: “Se il vostro intento era quello di provocar subbuglio, discussione, disordine, ci siete riusciti!”.



Matteo Vallorani

Laboratorio Teatrale Re Nudo
Ronda Anomala 


17.9.09

Si ride e si piange


Omìni di gruccia, a prima vista, dalle spalle larghe e la testa piccola, occhi di bottone, tre ometti che cercano di dimostrare qualche taglia in più, pupazzi costruiti di legno, a far da maschere al teatro, inanimati, impersonali, ma circondati da scherzi di parole disegnati su cartoncini colorati. È un gioco, “CRisiKo”, inevitabile per chi è di questo mondo, nel quale ci scopriamo immersi: forse basta sentirsi addosso lo sguardo di una sagoma di legno, o forse serve, esplicitamente, vedersi raffigurati sul palco, riuscendo a guardarsi, nella risata epifanica dal fiato mozzato; iniziare a percepirsi. “L’obiettivo è creare un rapporto con il pubblico, perché la gente non lo sa di essere pubblico. Ci proponiamo dunque come ascoltatori, ma anche come amplificatori di vite vissute”: i chiari occhi a disco degli omini riflettono (sul)la realtà indagata dal vero, risplendono di luce beckettiana, che rivela, taglia, lega, dalla sua prospettiva, le immagini, i profili poi dispiegati sul palco.
Gettati sul legno del teatro, gli omìni neonati, bambini, adolescenti, si trovano immersi in un mondo di altri, dai quali si fanno spazio a calci; estranei contingenti che presto, dalla lotta, diventano fonti di conoscenza di sé, poi modelli: il babbo, la mamma, il nonno, Cesare, Gesù, la Madonna “han fatto/han detto…”; estranei storici o fossilizzate caratteristiche comportamentali che dettano il normale. “Luca è l’eterno sfaccendato, […] Francesco è il cinico, il ‘quattrinaio’, Riccardo è il debole, il bigotto: abbiamo preso tre tipi, tre campionari delle piccole miserie umane”. I tre omìni crescono, di scena in scena, ragazzini, giovani, ragazzi, si costruiscono di vestiti, si nascondono in substrati: nel delinearsi delle personalità di ciascuno non si appropriano del vivere, ex-sistunt estranei, espropriati. Frenetiche sagome scattano sul palco, la statura fisica più eretta del vigore degli anni, amore, alcol, discoteca, droga, passere: il turbinio è divertimento. “Si fa, festeggiamo, tanto non possiamo fare altrimenti”: il divertimento è distrazione, oblio della noia tra un si fa e l’altro, quando si aspetta Godot. Gli omìni stanno bene, non scelgono, vogliono solo dormire, sputano al progetto, hanno paura del cambiamento, sono tristi, ma stanno bene; tanto che ne fuggono. Ma la corsa, l’urlo, portano avanti solo il tempo: evadere dal dove non si è mai entrati non è possibile; immutato resta il fittizio è convenzionale, che occulta il proprio autentico essere. Gli òmini ormai uomini, adulti, non saranno mai maturi: cibano la loro sopravvivenza di chiacchiere d’aria a gonfiare il proprio personaggio, si punzecchiano di ambigue curiosità apparenti, sguazzano in costanti equivoci, non avendo afferrato mai niente. Per questo quando in vecchiaia echeggerà reiterata l’affermazione: “il paradiso è qui, sulla terra”; più che un messaggio di speranza, suonerà come terribile memento di estrema lucidità.
In scena prende forma pian piano, plasmata dalle tre figure sul palco, una parabola heideggeriana, una farsa esistenzialista: è innalzato, a teatro, uno specchio autentico di esistenze inautentiche. I giochi di parole, le assillanti ripetizioni, le scene comiche scaturiscono da un montaggio esasperante di interviste, testimonianze, vite viste e vissute; l’esaltata l’assurdità aspira a provocare un atto di coscienza da parte del pubblico, delle risate che possano trafiggere la carne e mozzare il fiato: il terrore è nel guardarsi, vedersi davvero specchiato in quel turbinio di frasi fatte, sentirsi deriso da tutti e da se stesso, capirsi parte di un raccapricciante essere(un)insieme indistinto. Gli omini schiaffeggiano con urla, smorfie, lotte, in un gioco magistrale, che si guadagna la fiducia del pubblico, sorridendo lo spoglia di ogni difesa, per sbeffeggiarlo, infine, crudelmente. “Il nostro è un bisogno pressante, continuo, convinto, di crescere, di trasformare, di conoscere e riconoscere. Bisogna, allora, mettere all’erta, avvertire, far presente e nel presente agire, bisogna far capire o ancor meglio non capire, provocare, provocare una reazione, imboccare curiosità, alimentare curiosità, ingrassare curiosità”. In “CRisiKo!” c’è lotta, c’è crisi e c’è riso; è un gioco “CRisiKo!” dove si vive: “e si ride e si piange, senza saperne il motivo”.

Matteo Vallorani
Gli omini
CRisiKo!
di e con Riccardo Goretti, Francesco Rotelli, Luca Zacchini 


16.9.09

Corpi e suoni per definire «L’ambito»



“L’ambito”, allestito dalla compagnia Atacama di Roma e andato in scena al Teatro Concordia martedì 15 settembre, è uno spettacolo ricco di spunti e suggestioni, intarsiato di danza e musica, secondo le grandi abilità dei due danz-attori Patrizia Cavola e Ivan Truol. Si trattava del quarto appuntamento all’interno del quindicesimo incontro nazionale dei “Teatri Invisibili”.

Il pubblico del Concordia ha potuto apprezzare sia il lavoro formale, sia i riflessi “sociali” dell’azione, in particolare il discorso sulla vita degli individui nel mondo contemporaneo, incasellati in “ambiti” come caselle di alveare, tra lavoro, spazi urbani, tempi e luoghi contingentati. Efficace la forza comunicativa dei gesti danzanti dei due personaggi sulla scena, la cura dei dettagli in questo spettacolo minimale e di grande impatto, e specialmente le musiche originali di Epsilon Indi, oltre al testo di Oscar Stuardo (tradotto dagli stessi Cavola e Truol).

Il sipario si apre con ognuno dei due attori su un lato del palco, luce fredda sull’una, luce calda sull’altro. I costumi, neri con strisce bianche, sembrano essi stessi evocare l’asfalto, le strade di una qualunque città, e quindi il traffico, il disordine quotidiano. I due sono bene inquadrati all’interno dei rispettivi “ambiti”, ma a poco a poco impareranno a muoversi e a comunicare, fino all’osmosi dei due spazi di vita, con scambi danzati che suggeriscono un dialogo non più condotto solo con le parole, ma con spinte, trazioni, impenetrabilità dei corpi, rotolamenti, adesioni, vicinanze, distanze.

Acquisita l’alternanza parola/danza, i due passano a “fronteggiare” la comparsa dell’“altro”, nella forma di visi proiettati sullo sfondo, con espressione neutra, sorridente, o accigliata. Facce che non se ne andranno, come i due vorrebbero, ma anzi si moltiplicheranno, riassorbendo i protagonisti in una dimensione di anonimato sociale, quella stessa che l’“ambito” iniziale teneva all’“esterno”, in una sorta di distanza di sicurezza, più asettica che personale.

Teatro-danza, teatro fisico, Beckett: riferimenti molteplici per un lavoro che potrebbe essere accostato a varie altre esperienze del teatro recente e meno recente, e si offre intanto agli spettatori con la fluidità del gesto di Cavola e Truol, i loro movimenti, un audio ben calibrato e il minimalismo di una linea narrativa semplice, dal sé verso gli altri, rompendo la claustrofobia di un “ambito” che non è “autenticità” ma prigione. 
Giovanni Desideri




Compagnia Atacama
L'ambito
con Patrizia Cavola, Ivan Truol
testo Oscar Stuardo
traduzione Patrizia Cavola, Ivan Truol
musiche originali Epsilon Indi
costumi Mariella Visalli
luci Danila Blasi
ideazione, coreografia, regia Patrizia Cavola, Ivan Truol

 

11.9.09

Piccolo specchio d'Occidente


 
Non c’è un attimo di respiro. Veniamo accompagnati in un viaggio senza soste e il terreno che calpestiamo insieme lungo la corsa è fragile, pieno di crepe e cedimenti. Si viaggia da nord a sud, si inverte la direzione, si inciampa negli ostacoli nascosti. Il corpo e la voce di un attore solitario ci spingono in una diramazione di vie opposte, dissonanti. Si fatica a trovare un appiglio, una certezza che assicuri l’equilibrio della nostra sedia di spettatori.
Lampedusa è uno spiffero!!! del duo siculo-toscano EmmeA’Teatro è uno spettacolo sincero e forte come l’esperienza che l’ha nutrito. Fabio Monti e Norma Angelini hanno concentrato in questo lavoro la realtà della piccola isola, restituendo le incoerenze e gli stridori di uno sviluppo economico repentino e disastroso, di cui si sono fatti testimoni in quasi due anni di studio e ricerche sul campo. Lampedusa, «un ferro da stiro rovesciato», terra rocciosa larga quindici chilometri e lunga tre, tormentata da un sole spietato, è il piccolo specchio in cui si riflette nostro Occidente, dove tra immigrazione e turismo, ricchezza improvvisa e storica mancanza di servizi statali, si condensano amplificate le contraddizioni della società contemporanea.
Solo una sedia con cui poter interagire, Fabio Monti passa agile da un personaggio all’altro, prestando la sua mimica vitale a una manciata di figure esilaranti, commoventi, irritanti. Ci sono alcuni isolani, vittime dell’indifferenza e della solitudine, un leghista isterico che inveisce contro gli immigrati, un becchino umile ed eroico, una bagnante palermitana ossessionata dai miti televisivi. Presentata come un «monologo tragicomico», l’opera non ha un testo scritto, ma si adatta con naturalezza alla casualità di ogni replica, seguendo solo un canovaccio di temi. Una forma frammentata e  multifaccia, la cui leggerezza non sminuisce mai il contenuto, ma lo offre con semplicità, nell’immediatezza dell’azione. Siamo qui e non lo siamo, ascoltiamo e guardiamo uno spazio circoscritto e nello stesso tempo veniamo catapultati nel mondo. Un moto centrifugo che libera la percezione e con la risata apre alla riflessione comune sul disagio e sulla marginalità.
Le proiezioni, curate da Norma Angelini, intervengono a spezzare regolarmente il monologo, in accordo con il clima di spinte e controspinte emotive, anche grazie all’utilizzo paradossale della musica. Documenti video e foto, frammisti a realizzazioni di computer grafica da cui traspare la sensibilità poetica dell’artista, nella leggerezza di un’opera grezza e franca, senza mediazioni di sorta.
Durante  immagini scorrono veloci sullo schermo alle sue spalle, l’attore resta seduto in scena, sagoma scura, a ricordare che l’equilibrio delle nostre sedie non sarà mai stabile.
Alessandra Cava

EmmeA’Teatro
Lampedusa è uno spiffero!!!
monologo tragicomico
di Norma Angelini e Fabio Monti
con Fabio Monti
elaborazioni video Norma Angelini
luci Michele Fazio 
organizzazione Francesco Fantauzzi

extra

25.06.2008 Voci di Fonte, Siena
Conversazione con Fabio Monti e Norma Angelini
di Alessandra Cava 

Lampedusa è uno spiffero!!! è uno spettacolo con un solo attore e una sedia in scena, una composizione visiva facilmente associabile al teatro di narrazione. è possibile ipotizzare un rapporto di derivazione del vostro teatro con la tradizione dei grandi narratori?

Non credo sia possibile etichettare il nostro lavoro, poiché la nostra produzione è molto eterogenea e sfugge alle definizioni. Per quanto riguarda Lampedusa, potrebbe a prima vista apparire come uno spettacolo di narrazione, ma presenta una caratteristica sostanziale che devia lo spettacolo da questa tradizione: non vi è un vero e proprio arco narrativo, né un narratore. Il ruolo di Fabio in scena è quello di passare da un personaggio all’altro come in una sorta di monologo multiforme, frammentario e sconnesso. Uno dei difetti maggiori del teatro italiano è la sua tendenza a stancarsi velocemente: crea continuamente nuove mode e poi le distrugge. La noia è un virus abbastanza diffuso e colpisce non solo il pubblico, ma i teatranti stessi, e noi tentiamo di combatterlo lavorando su una forma eclettica. Non a caso nel nostro “Diciassettalogo” appare una citazione da  La subdola strategia della noia di Peter Brook, il nostro nume tutelare: “Non annoiarti. Se ti annoi stai sbagliando strada”. 

Per restare nella zona d’influenza di Brook, quanto vi appartiene la sua concezione di leggerezza come forma ideale per la trasmissione di contenuti profondi?

La leggerezza è uno strumento di comunicazione che non solo rende accessibile il tema trattato, ma permette un rapporto paritario di condivisione fra attore e spettatore. Quando Brook parla di leggerezza, però, mette in campo una pratica della qualità in termini esoterici a cui noi non possiamo ancora avvicinarci per mancanza di esperienza dal punto di vista umano, teatrale. La sua idea è un punto di partenza, per noi che siamo ancora all’inizio del nostro percorso di ricerca. 

C’è un limite oltre il quale la tensione verso la qualità perde il suo senso?

Non c’è una regola,  ci sono infiniti fattori da cui questo dipende. Ma il limite, per l’arte in generale, è una benedizione. Molti artisti, scontrandosi con i limiti,  ne ricavano nuova materia per la propria creazione. Anche lo spettatore, nel suo essere distante e opposto, può essere considerato un limite, un limite buono, poiché lo spazio che si frappone fra il palco e la platea crea una dimensione parallela nella quale avere una visione reciproca più chiara. 

Com’è nato  e come avete lavorato al progetto di Lampedusa è uno spiffero!!! ?

Il progetto di Lampedusa nasce dalla volontà di trattare il tema dell’immigrazione, intesa come un cambiamento epocale assolutamente inevitabile e che coinvolge tutta l’Italia, anche se il fenomeno viene percepito in maniera più forte nelle grandi città. In un primo momento abbiamo privilegiato uno sguardo generale e freddo sull’argomento, esaminando i dati riguardanti le statistiche e le legislazioni di tutto il mondo. In seguito abbiamo spostato l’attenzione sul caso particolare dell’isola di Lampedusa, con la volontà di osservare il fenomeno da vicino. Tre settimane a stretto contatto con la popolazione, ascoltando quello che le persone avevano da dire, guardandole negli occhi, hanno fornito il materiale caldo per lo spettacolo. Una delle terre più a sud di tutta l’Europa, Lampedusa ha vissuto, concentrata negli ultimi dieci anni,la trasformazione economica e sociale avvenuta in mezzo secolo di storia occidentale. Questo sconvolgimento ha modificato all’improvviso la percezione della realtà e i valori dei lampedusani; li ha resi molto più ricchi grazie all’esplosione del turismo, ma molto più soli. Tra gli abitanti dell’isola, un diffuso allarmismo nei riguardi dell’immigrazione, montato dalla stampa e dalla televisione, si unisce alla paura di tornare alla miseria di un passato ancora troppo recente. Il metodo che utilizziamo in lavori di ricerca come questo parte dalla raccolta di materiale vivo, e dalla estremizzazione delle contraddizioni del caso. All’inizio del percorso si è inevitabilmente carichi di pregiudizi, ma essi cadono uno ad uno nel corso dell’esperienza. è un modo di “farsi rompere gli occhiali” con cui filtriamo la realtà, osservandola da una molteplicità di punti di vista.

Qual è la reazione del pubblico durante lo spettacolo? è ancora possibile, grazie al teatro, “rompere gli occhiali” dello spettatore?

La reazione più comune è la commozione, mista all’indignazione. Purtroppo crediamo poco a un teatro che provochi un cambiamento concreto, che sia capace di modificare realmente la percezione dello spettatore, che sposti nella sfera pubblica ciò che è riconosciuto come fenomeno privato. Il teatro politico non ci appartiene più come formatore di coscienze, ma resta comunque uno degli ultimi luoghi della verità, in cui si può dire la verità, ciò che altrove è indicibile. 

Come si è evoluto il vostro lavoro su Lampedusa durante il periodo di ricerca?

Dal momento in cui è stato scritto il progetto a quello in cui è stato messo in scena la prima volta, a Milano, sono passati quasi due anni, durante i quali lo spettacolo ha subito una radicale trasformazione, essendo stato inizialmente concepito come una sorta di musical con sette personaggi. Ed è tuttora in evoluzione, poiché non vi è testo scritto, ma un canovaccio di temi che permette una libera gestione dell’azione, in uno spettacolo per ogni replica diverso. La coerenza, a nostro parere, deve risiedere nel tema e non nella forma. Quando si comincia a lavorare a un programma di questo tipo, come sta avvenendo ora per il nostro prossimo progetto su Don Milani, l’approccio alla realtà è completamente diverso, l’attenzione è dilatata e le idee continuamente suscettibili di cambiamento. Il lavoro è continuo, la ricerca interminabile, una ricerca di sé che si identifica con uno scandaglio del mondo circostante. Sempre mantenendo nitida la visione che in quel momento si sceglie di seguire. è un equilibrio instabile, soggetto all’esperienza, al vivere con gli occhi bene aperti su ciò che accade intorno a noi. 

La scena è ridotta all’essenziale: oltre alla sedia per l’attore, un telo per le video-proiezioni. Come interagisce il linguaggio del video con lo spazio e con l’azione?

I video sono sia documenti del viaggio nell’isola, sialavori di computer grafica e di montaggio di immagini. Volutamente non integrate con l’azione, le proiezioni scandiscono il tempo dello spettacolo, conquistando ogni volta il proprio spazio autonomo. Il mantenimento del carattere artigianale dell’opera è una scelta volta a potenziare l’impatto delle immagini proiettate e a restituire la sincerità dell’esperienza diretta. Esse ricordano il tocco leggero di una cosa vista per caso, all’improvviso, uno squarcio sfocato sulla realtà.

9.9.09

Scampoli per lo spettacolo dell’anno (e fili per cucirli insieme)

Milleottocentonove: nascita di Darwin.

Milleottocentocinquantanove: pubblicazione de L’origine delle specie.

Millenovecentonove: pubblicazione del primo Manifesto futurista.

Millenovecentocinquantanove: creazione della prima Barbie.

Millenovecentosessantanove: sbarco sulla luna.

Millenovecentoottantanove: caduta del muro di Berlino.

Millenovecentonovantanove: morte di Stanley Kubrick.

Trovare i legami, stringere i nodi; raccontare il passato cadendo nel presente, nell’istante, nell’immediatezza della scena, e proiettarsi nel futuro. Scrivere per il teatro attraverso il segno dell’azione, mostrare il tracciato della ricerca e lasciare l’esito all’immaginazione. Gli spunti sono molteplici, accomunati casualmente dalle decine perfette degli anni che separano gli eventi, ed è come se di questi materiali si costruisse un microcosmo per la scena, un piccolo percorso ordinato tra i frammenti in orbita. Si parla di film, documenti, dicerie, storie private, ricordi. Si parla della luna con il grande carro d’immaginari che si trascina dietro. Si parla delle scimmie finte di 2001 Odissea nello spazio, della nascita del genere umano, del misterioso monolite. Si parla della paura della malattia, della morte, si parla di occhi. Occhi che scelgono di guardare la luna o il dito, occhi che si spaiano, si perdono e vengono ritrovati, occhi che ammiccano. Mentre il futuro e il passato si confondono, le forbici robuste dell’Iconoclasta si fanno strada nella complessità: egli ritaglia e raccoglie brandelli di immaginario collettivo e di storie personali; con il suo ago di Poeta le congiunge, creando un modello incompiuto o un vestito imperfetto, che il Comico non può ancora indossare e che forse non indosserà mai. è un gioco, questo di Andrea Cosentino, che si diverte con se stesso, svelando i propri trucchi e irridendo le proprie regole; uno spettacolo-Concetto che parla di un altro spettacolo, ipotetico, ancora da realizzare e che, mentre lo fa, indaga le meccaniche della spettacolarità tout court, intesa come rappresentazione eternamente in bilico tra verità e mistificazione. Gli calza a pennello l’acronimo che il critico e amico Nico Garrone (a cui questo lavoro è dedicato) inventò per lui e per pochi altri artisti definiti ICCP - Iconoclasti Concettuali Comici Poeti, esponenti di una nuova corrente che rispolvera le storiche avanguardie e ne fa strumento originale e valido di dissezione e dissacrazione dei congegni comunicativi a cui i pubblici di ogni sorta sono assuefatti.

Bastano un cappello bizzarro, un tic o una postura, un accento: l’allunaggio, l’evento più ambiguo della storia dei media di massa viene filtrato da personaggi strampalati che intervengono con la propria surreale versione dei fatti a punteggiare ­lo svolgimento del racconto con storie di alieni e licantropi, tra ricostruzioni di Kubrick e improbabili controfigure di Viterbo. Un meccanismo complicato di rispondenze si instaura tra i variegati materiali esposti come in una galleria del racconto, mentre l’artificiosità degli espedienti scenici non viene nascosta, ma dichiarata ed esasperata dall’utilizzo di oggetti che richiamano l’idea di un teatro artigianale dal forte potere poetico e dunque creativo. Se in «Telemomò» - progetto di restrizione dello spazio compositivo ai quattro lati della cornice di un televisore - vengono trasposte, materializzate, smascherate le convenzioni del linguaggio dello schermo, qui vengono portati in superficie gli scheletri occultati della narrazione, viene infranta ogni illusione di verità, si afferma l’impossibilità di conoscere una realtà della quale non si ha più esperienza immediata e di cui una fila interminabile e inevitabile di errori ne invalida la riproduzione. Una storia vera è dunque un ossimoro, ogni racconto falso come la luna di carta che brilla ingannevole, incollata al soffitto del cielo insieme all’originale, nella favola che Cosentino legge alla figlia per farla addormentare. A dispetto della sete di realtà, dell’avidità con cui ricerchiamo l’autenticità delle informazioni, dell’ossessione per i fatti di cronaca e per i reality show, il Poeta, con grazia e gentilezza, addita il grande artificio: il tempo imperfetto, indicativo di un’azione non ancora conclusa, il tempo del racconto, il tempo del gioco. Facciamo che eravamo andati sulla luna?

Alessandra Cava

Andrea Cosentino

Primi passi sulla luna

Divagazioni provvisorie per uno spettacolo postumo

di e con Andrea Cosentino

assistenza drammaturgia e registica Andrea Virgilio Franceschi, Valentina Giacchetti

7.9.09

I fiori di Babilonia

Ieri ho visto tre morti.

Dove?

A teatro, tre morti nelle bare. Nessun fondale, nessuna quinta, solo tre bare in verticale e dentro tre morti.

Hai visto tre morti in piedi.

Ho visto tre morti, in piedi, incorniciati dalle bare.

Raso bianco?

No, carta dorata, come quella dei cioccolatini.

Come star.

Come pop star.

Chiusi dentro, i coperchi sigillati. Tre lucidissime casse da morto di legno chiaro svettano sulla scena. Una grossa ghirlanda viene deposta ai piedi del proscenio. Il tecnico si occupa di sistemarla con cura e sale sul palco con un trapano in mano. La prima bara viene scoperchiata. C’è una donna senza nome, restituita alla vita, figuretta sgargiante che spunta dal proprio giaciglio eterno e ci fissa con sguardo assente, mentre inizia la litania dell’orrore quotidiano che snocciola un rosario di agonizzante discesa verso gli inferi. Uno, due e tre, anche gli altri cadaveri tornano alla luce: ancorati alle loro casse, A, B, C si rincorrono a suon di narrazione straniata in cui la voce non ride, non si rompe nel pianto, non geme, non esulta, non trema. Non c’è traccia di interpretazione, i personaggi si protendono a scandire la propria storia con minuzia descrittiva e linearità temporale; è il ritmo, al di sopra di tutto, a governare il flusso ininterrotto dei racconti, la cui unica caratterizzazione è lo spiccato accento del nordest con cui vengono recitati. La provincia veneta è lo sfondo grigio su quale le parole si fanno subito immagini, affastellandosi come in un rapidissimo montaggio di istantanee o come in una striscia a fumetti. Ridicoli, volgari, frustrati, arrabbiati, voraci, i protagonisti di queste storie si muovono nei paesaggi spettrali delle zone industriali, vagano per le vie di squallidi quartieri, ammazzano il tempo nei pub di periferia, sviluppando strane dipendenze e perversioni crudeli, alimentate dalla noia e dalla disperazione. Babilonia Teatri conserva il suo stile personalissimo, dimostrando di essere capace di declinarlo a proprio piacimento, mantenendo saldo il controllo dei tempi e degli spazi in modo da creare un meccanismo perfetto che esplode al momento giusto. Si fa mostra di ogni artificio scenico. Si espone in vetrina una solitudine esasperata, grottescamente echeggiata dal celebre successo della Pausini cantato a squarciagola sotto una pioggia di fiori, solitudine come condizione dominante di una generazione che sprofonda nell’illusione e si contorce nel desiderio mai appagato. Si mette in scena la fine verso la quale tutti siamo attratti, dove il successo e la morte si confondono e ogni gesto porta contemporaneamente alla vittoria e alla sconfitta. Quelle di A, B e C sono storie sfacciate che si esibiscono in una danza che le intreccia e le confonde, che si estendono all’alfabeto delle storie di tutti, accomunando in un unico destino un’intera società, nell’epoca in cui lottare per uno scopo è prerogativa degli eroi o degli imbecilli. La corsa a perdifiato verso la popolarità, il desiderio di piacere, di uscire dal privato a tutti i costi, ricordano una folle fuga dall’isolamento che fallisce nel momento in cui si ritorce contro se stessa e fa strage di tutto ciò che incontra. Bloccati nella propria cassa imbottita d’oro, i tre si mettono a nudo, ognuno nel racconto della propria personale caduta. Le storie, in principio parallele, si rivelano essere legate una all’altra, mentre il racconto procede verso la fine. Le immagini evocate si fanno via via più spietate, fino a raggiungere una violenza smisurata e surreale, tanto da sconfinare nello splatter. Angeli custodi superdotati, demoni a cui vendere l’anima in cambio di una voce da meravigliosa, sofficini appiccicati al pavimento, caramelle al miele, dita negli occhi, stupri, intestini srotolati, il tutto sublimato da un omaggio floreale a cascata che piomba sulla scena, mentre gli aspiranti divi ne raccolgono grossi mazzi a piene mani. Ascesa al cielo come ascesa all’olimpo delle star: infine la veglia funebre si trasforma in un concerto pop cantato in playback. Ora è possibile liberarsi del corpo terreno, uscire dalle tombe quotidiane, sprofondare tra fiori di plastica e lustrini; purificati dalle colpe terrene, mostrare dall’alto i propri talenti al mondo e, finalmente, essere amati.

Alessandra Cava

Babilonia Teatri

Pop star

di Valeria Raimondi e Enrico Castellani

con Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Valeria Raimondi, Mauro Faccioli

realizzazione di Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Valeria Raimondi, Vincenzo Todesco

scene Babilonia Teatri/Gianni Volpe

costumi Babilonia Teatri/Franca Piccoli

luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton, Mauro Faccioli

6.9.09

20.9.08

Don Chisciotte varietà

«C’è sempre qualcuno più matto di noi che ci fa sentire normali!»: nell’intreccio tra malattia e sanità mentale, il Don Chisciotte, proposto da Synergie teatrali, ci presenta una follia fanciullesca, libera, contro la presunzione ottusa di assennatezza, da parte di una società assurda. Uno spettacolo, il secondo di questa compagnia all’interno del quattordicesimo Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili, che unisce sinergicamente teatro ed avanspettacolo: scenografie sfavillanti, colpi di scena, musiche scoppiettanti, luci della ribalta in opere della letteratura classica mondiale; storie d’amore in varietà, drammi cabaret, con un forte impatto visivo per un pubblico dei giorni nostri. Sul palco risplendono luci e nastrini di un locale d’avanspettacolo che attende l’attore protagonista; lo spettatore da subito viene investito dalla fisicità degli attori, da balletti esuberanti e dall’euforia dell’uomo da palcoscenico: l’attore folle che entra dalla platea e crede di essere Don Chisciotte. Il direttore del cabaret, non curante dell’insania dell’uomo, vedendolo come fonte di guadagno, non fa che assecondarlo, non solo facendogli credere che il locale sia la Mancha e che una Mini sgangherata sia il suo Ronzinante, ma anche costringendo gli altri attori a presentarsi a lui come personaggi e non come attori: così il caratterista è Sancho Panza, la soubrette diventa Dulcinea e la star decaduta impersona il suo nemico prediletto. Ma d’altra parte questo attore/Don Chisciotte sembra piegarsi perfettamente ai giochi teatrali del varietà: non si comprende mai se quella del protagonista sia una lucida pazzia o se egli sia effettivamente perso totalmente nei meandri della mente dell’ultimo hidalgo; finché la pazzia stessa non viene esasperata, provocata all’eccesso da tutti i personaggi, in un crescendo di tensione che si risolve nel duello finale. Viene messa in scena una geniale idea per un classico senza tempo, come quello di Cervantes, mostrando il sogno affascinante che è il teatro, nella sua ingenua ma autentica, puerile follia, in contrasto con le crudeli regole di un mondo che nasconde la sua mostruosità dietro sorrisi e lustrini. Lo spettacolo, seconda produzione del Teatro Ventidio Basso, è un susseguirsi di sketch cabarettistici, tra la rappresentazione comica di un Don Chisciotte moderno e quella grottesca del “dietro le quinte”: la sceneggiatura stessa, pur essendo per la maggior parte originale, ruba a piene mani nelle “orazioni” più famose del romanzo. Il gioco teatrale è “falsamente” svelato: anche se gli attori stessi si proclamano tali e anche se palesemente si mette in scena uno spettacolo, gli attori rimangono fino alla fine personaggi, personaggi-attori che mettono in scena il loro spettacolo. Ciò è sottolineato soprattutto dalla scenografia di Pino Prosciutti, dai camerini e gli specchi con le lampadine ad incandescenza a vista, ai costumi, carichi delle loro paillette e dei piumaggi, che non solo vengono indossati dagli attori, ma, appesi in scena, creano una sorta di palco-arena. La funzionalità di questa composizione risiede soprattutto nell’aver contrassegnato e diviso i registri: differenziando e frazionando il palco in un sopra e un sotto, un dietro e un avanti, nonostante lo spettatore sia investito da un turbinio di stimoli, riesce sempre a riprendere le redini della storia. Quello che Synergie Teatrali riesce a fare è appassionare una grande quantità di pubblico al teatro, come dimostrano le platee piene e gli scroscianti applausi, puntuali alla fine dello spettacolo. Le musiche utilizzate sono quelle che fanno da sfondo all’immaginario collettivo multimedializzato, la follia, le luci a tubo dei negozi, i retroscena piccanti del mondo dello spettacolo: il Don Chisciotte è una piece per il pubblico dei giorni nostri, e ben venga se è capace di avvicinarlo a temi importanti e ai sistemi comunicativi del teatro; anche se c’è sempre qualcuno più intelligente di noi che ci fa sentire stupidi.
Carlo Benigni
Synergie Teatrali Don Chisciotte con Stefano Artissunch, Alessandro Marinelli, Alessia Bedini, Gian Paolo Valentini, Piergiorgio Cinì, Stefano De Bernardin scene Pino Prosciutti costumi Claudia Ciotti organizzazione Danila Celani

19.9.08

Il sogno del prigioniero

Siamo a Robben Island, l’isoletta sudafricana utilizzata come luogo di segregazione e prigionia sin dal XVII secolo, tristemente nota per essere diventata negli anni dell’apartheid l’atroce residenza di chi contestava il regime. Potremmo tuttavia trovarci in qualsiasi punto della Storia, in qualsiasi luogo del mondo in cui un governo violento e intollerante prenda il potere e si eserciti a giocare con i diritti e la dignità degli uomini. L’isola è un dramma sulla discriminazione, sull’esilio, sulla prigionia politica nel Sudafrica dell’apartheid, ma diventa universale nel momento in cui dirige uno sguardo acutissimo negli angoli in cui la libertà negata si fa libertà rivendicata e prende forme e colori insperati. Opera di Athol Fugard, il maggiore drammaturgo sudafricano, autore di drammi delicati e di grande potenza espressiva, L’isola appartiene ai cosiddetti “statement plays”, scritti nei primi anni Settanta. In quegli anni Fugard lavora a stretto contatto con John Kani e Winston Nshtona, attori della compagnia dei Serpent Players, studiando a fondo le potenzialità drammaturgiche dell’improvvisazione. I testi composti nel corso di queste feconde esperienze possiedono nella forma una freschezza rara e la leggerezza ideale per veicolare le violente critiche dirette alle leggi dell’apartheid, conservando l’immediatezza della creazione estemporanea e guidando la recitazione verso una sincerità che s’abbatte sul pubblico con una forza prorompente. Sincera è infatti la messa in scena de L’isola diretta da Marta Gilmore, sincera nella semplicità dei mezzi espressivi, sincera nei gesti e nei toni degli attori, sincera negli intenti. Isola Teatro nasce nel 2004 con la regia di questo testo, da cui prende il nome facendone il manifesto della propria poetica: «La compagnia si propone di portare avanti un percorso di ricerca teatrale che utilizzi le metodologie, i contenuti e i testi del teatro contemporaneo mondiale, mantenendo al contempo un dialogo vitale con i classici della letteratura, della poesia e del teatro, con i fantasmi della memoria collettiva ed individuale, e con l’intima e inesauribile domanda di dignità che la storia di ogni essere umano porta con sé». L’azione comincia con una corsa a perdifiato a segnare un cerchio, poi un altro e un altro ancora. Si corre fino allo sfinimento intorno al nucleo dell’azione, intorno alla pedana rialzata che è la cella del carcere, che è l’isola, la prigione. Stiamo per assistere a un frammento della vita di John e Winston, compagni di cella, stiamo per osservare la loro vita di prigionieri, umiliante e dolorosa. Le loro esistenze sono state appaiate per caso, per caso sono essi stati destinati alla convivenza, allo scambio di ricordi e pensieri. Oscar De Summa e Armando Iovino prestano il corpo e la voce ai reclusi, delineando i tratti di un amicizia autentica e disperata che si scontra con le pareti ristrette della stanza, urtando senza posa contro le ingiustizie dello Stato e contro i confini della propria libertà. Eppure, nello smarrimento dell’esilio, John trova il modo di riscattare la propria condizione, coinvolgendo Winston in un progetto che ha il sapore di una grande metafora. L’Antigone di Sofocle, messa in scena dai due detenuti, diventa un inno alla libertà in cui la recita nella recita si rivolge «ad un pubblico immaginario di detenuti e secondini, coinvolgendo loro e noi in una rappresentazione del processo tra lo Stato - il re Creonte - e la ribelle Antigone, che è anche una critica in farsa del regime dell’apartheid. Come nella tragedia greca, in cui il teatro era un rito collettivo che sanciva l’appartenenza comune alla città, John/Creonte e Winston/Antigone riescono a condividere la propria condizione con gli altri condannati e insieme a sfidare l’apartheid e le sue ben più gravi farse» (Marta Gilmore). Basta una coperta utilizzata come sipario e alcuni oggetti riadattati: la magia del teatro si ritaglia un angolo di libertà nel luogo dove la libertà è stata cancellata. Il sogno del prigioniero di Montale, che inventa «iridi su orizzonti di ragnateli / e petali sui tralicci delle inferriate» pare qui trovare la sua migliore concretizzazione.
Alessandra Cava
Isola Teatro L'isola di Athol Fugard, John Kani, Winston Ntshona con Oscar De Summa e Armando Iovino disegno luci Luca Barbati musiche Soweto String Quartet, Hugh Masekela, Peter Tosh aiuto regia Daniela Capece regia e traduzione Marta Gilmore